Flannery, mostro di Meraviglia

Recensione di: FLANNERY O’CONNOR, TUTTI I RACCONTI (Bompiani Tascabili, 2011)

“Lasciati al loro destino, i racconti non mentono. Ogni cosa deve essere subordinata a un tutto diverso da chi scrive. Un racconto dove mi rivelo completamente sarà un pessimo racconto”
(F. O’Connor, da Sola a presidiare la fortezza. Lettere)

Flannery O’connor è un mostro. Mostro di bravura nello scrivere, con uno stile asciutto e crudo al pari di Faulkner o dell’Hemingway più maturo, capace di celare nella grettezza dei suoi personaggi la mostruosa – appunto – realtà, dietro la terribile banalità della provincia sud degli States negli anni Cinquanta.

La piccola donna di Savannah, Georgia, cattolica ortodossa in un mare di religioni variegate e su misura, tutta dedita alla sua vita minima in casa, ai suoi pavoni e alla scrittura metodica e meticolosa sino alla precoce morte nel 1964 (divorata da una lunga malattia), è stata in realtà un genio della scrittura del suo tempo, con il dono di essere totalmente attuale e profetica per il nostro.

Così cruda nella descrizione della realtà, capace di esprimere con pochi tratti accennati l’essenza profonda dei suoi personaggi, con un miscuglio di comico e orrore che la traduttrice Marisa Caramella ha giustamente definito grottesco.

Della O’Connor la Bompiani ha pubblicato Tutti i Racconti, raccogliendo i 19 pubblicati negli USA in due diverse raccolte, più altri 12 presenti in diverse riviste letterarie, per un totale di 31 racconti, in ordine cronologico dal 1945 al 1965, che ben rendono l’evoluzione e maturazione della tecnica narrativa, una crescente capacità di sintesi che va verso il simbolismo e l’allegoria, e la presenza di alcuni elementi ripetitivi e ridondanti, veri e propri motivi guida della scrittura della O’Connor. Alcuni di questi racconti saranno poi sviluppati dall’autrice per entrare a fare parte dell’ossatura dei suoi unici due romanzi brevi: La saggezza nel sangue del 1952 e Il cielo è dei violenti del 1960.

Ma quali sono questi temi ricorsivi? Se ne individuano almeno tre: il grottesco, il Mistero e la Grazia.

Del grottesco si è fatto cenno: è presente nello stile narrativo e nelle azioni dei personaggi che ne svelano il carattere perverso, immersi come sono nella quotidianità degli Stati Uniti del sud degli anni Cinquanta, con il perbenismo cinico, la falsa vita idillica di campagna, la questione razziale ancora non risolta, come nel racconto Il negro artificiale, in cui il signore Head porta il nipote in città per svelargli tutto l’orrore di questo luogo di perdizione, riassunto nella immagine di un mitico negro idealizzato negativamente; o come nel Profugo, in cui l’arrivo in una fattoria di un lavorante polacco genera le invidie e la tremenda vendetta di uno dei vecchi e ignavi contadini.

C’è poi il Mistero. Cosa si cela, signora O’Connor, oltre la vita del sud USA, dietro la banalità del perbenismo di donne che difendono con una esistenza arida e gretta la terra, di contadini che si nutrono di piccole vendette, per un poco di dignità o per l’attaccamento alla propria roba? Il mistero, in verità, è altro, perché tutto si ferma al limite, alla soglia del bosco che brucia o alla riva del fiume che affoga. E chi varca quel limite – oltre il quale la natura, che è Creato, purifica – non torna a dirci altro. Anche il racconto si ferma alla soglia del Mistero. Ma chi supera quel confine sono i disperati, miseri ingannatori e ingannati: donne tradite da un inganno, predicatori senza un credo, giovani sbandati e educatori che hanno sbagliato tutto. Solo loro hanno il coraggio di una Fede inconsulta e incompresa che li porta a saltare e provare l’oltre, a scoprire il senso del terribile, nel vuoto del bosco, del campo, della tromba delle scale. Di cosa ci sia, nell’altrove, la scrittrice sembra lasciarci tracce, comunque difficili da decifrare.

Ma dove è, infine, la Grazia, signora O’Connor?

Fose nei tremendi bambini che, come angeli vendicatori, mettono a ferro e fuoco i campi nel raconto Un cerchio nel fuoco? Oppure nel bandito Balordo che inganna e distrugge la famiglia della vecchia ingenua nonna in Un brav’uomo è difficile da trovare? O è Rufus – protagonista de Gli storpi entreranno per primi – a portare la Grazia, lui che usa la Parola della Bibbia per indurre all’inganno e all’odio e conduce a morte un innocente?

La Grazia, in questi racconti, è un fatto tanto presente e prioritario quanto difficile da dire e da trovare: non è per tutti. E davvero, in questo mondo evangelico rovesciato, per gli ultimi non c’è pietismo e buonismo: la Grazia è drammatica (“Il dramma è Dio”, scriveva Turoldo) perché in questa nostra realtà è difficile da distinguere dal male, mentre essa salva, quello distrugge, così come crescono insieme grano e gramigna.

Di tutti questi temi ricorrenti la O’Connor giunge a fare una ottima sintesi in quei racconti in cui raggiunge grande maturità narrativa. In particolare, io apprezzo Gli storpi entreranno per primi e La festa delle azalee, nei quali la costruzione testuale è misurata in un incastro che conduce a una conclusione inesorabile. Nel primo, il tentativo dell’educatore Sheppard di redimere il giocane Rufus si infrange contro l’atteggiamento falso e quasi destinato al male del ragazzo, a scapito del figlio dello stesso educatore. Nel secondo, l’inchiesta del giovane nullafacente Callhoun che vuole redimere l’immagine di un pluriomicida di paese si incrocia con quella di Mary Elisabeth: entrambi cercano nella redenzione dell’assassino uno scopo per la loro vita contro il perbenismo incarnato dalla festa delle azalee. Ma di fronte alla delusione per l’effettiva follia dell’uomo che hanno mitizzato, ai due non resta che rifugiarsi in un sentimento repentino, forte e disperato.

Grottesco, Mistero e Grazia sono alcuni dei temi che tornano continuamente nei racconti della O’Connor. C’è un senso di circolarità che riporta personaggi e lettori a ritrovare quanto fatto in vita nella conclusione della stessa, al momento del passaggio. Non è un caso che l’ultimo racconto della raccolta, Il giorno del giudizio, sia una ripresa ampliata del primo racconto dell’autrice, Il geranio, storia di un vecchio allontanato dalla sua casa di campagna per spegnersi tra le quattro mura di un appartamento di città. Anche in questo caso, la libertà agognata è nella fuga immaginaria nel salto per la scala del condominio, verso un luogo e un tempo oltre, ormai raggiungibili solo in una nuova vita.

Andrea Parato

Per approfondire: Flannery O’Connor, Sola a presidiare la fortezza. Lettere, Minimum Fax, 2012

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